Gay Help Line a supporto delle richieste di protezione internazionale
La necessità di una regolarizzazione, la scarsa conoscenza del contesto culturale e il rischio di restare ai margini accomunano l’esperienza di tutte le persone migranti, nella fase immediatamente successiva all’arrivo in Italia. Ma per chi appartiene alla comunità LGBTQI+ le criticità sono elevate all’ennesima potenza e “le difficoltà sono a 360 gradi”, sottolinea Alessandra Rossi, coordinatrice della Gay Help Line, il numero verde antiomofobia e antitransfobia per persone gay, lesbiche, bisex e trans.
Ed è per questo che il Gay Center di Roma, oltre al servizio telefonico e alla chat, con lo Sportello Intercultura ogni due giovedì garantisce anche la possibilità di ottenere un appuntamento con un operatore, un mediatore linguistico e una mediatrice culturale.
Nel 2021 le chiamate al numero verde 800713713 da parte di persone migranti sono state circa 800, il 4,91 per cento del totale (20.000 circa).
Gay Help Line: 800713713 via web o Speakly chat attivo dal lunedì al sabato, dalle 16 alle 20 – Gratuito da tutta Italia sia da telefono fisso che da cellulare
Speakly chat anche in inglese: lunedì, mercoledì e venerdì
Sportello intercultura: ogni due giovedì dalle 16 alle 18, via Nicola Zabaglia, 14 (Metro B – Piramide)
Le persone della che si rivolgono allo Sportello Intercultura lo fanno per un’esigenza pratica, forte e tangibile: i documenti.
Il servizio che il Gay Center mette a disposizione di chi arriva dal resto del mondo è cambiato negli ultimi anni: “prima non gestivamo un gruppo in cui le persone potessero anche conoscersi tra loro”. La pandemia non ha cambiato solo l’offerta, ma anche le esigenze: “più di prima c’è bisogno di rispondere a bisogni concreti legati all’indigenza o a episodi di violenza”.
Partenza e arrivo hanno un peso importante per chiunque si sposti dal suo paese di origine, ma appartenere alla comunità LGBTQI+ moltiplica in maniera esponenziale le difficoltà: “chi parte si porta dietro una esperienza traumatica di criminalizzazione o di persecuzione, che spesso si aggiunge alla necessità di spostarsi per condizioni di povertà o di instabilità del Paese in cui si vive, e arriva nel contesto culturale italiano che non è esente da discriminazioni su più fronti”.
La mancanza di informazioni relativamente al clima del paese di arrivo, lo stigma interiorizzato che viaggia insieme alle persone porta alla chiusura e non all’apertura, al coming out, a vivere liberamente la propria identità.
La comunità di riferimento, che per le persone migranti di solito rappresenta un porto sicuro e gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di una nuova quotidianità in Italia, è molto spesso una minaccia perché, in scala, può capitare di ritrovare la stessa dinamica discriminatoria che si vive nel Paese d’origine.
“E anche il sistema di accoglienza non è pronto”, spiega Alessandra. “Ma qualcosa comincia a cambiare: c’è una maggiore attenzione, ad esempio, nel SAI (Sistema Accoglienza Integrazione), che sta iniziando a interrogarsi su questi temi e a fare formazione. In Italia fanno ancora fatica ad arrivare, ma nel 2021 sono state anche approvate le linee guida per le Commissioni territoriali sulle richieste di protezione basate su violenza di genere“.
Ottenere la protezione internazionale è una delle principali ragioni che spingono a chiedere supporto allo Sportello Intercultura: ogni anno presentano domanda d’asilo in Europa migliaia di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali.
“Ma siamo ancora in una fase in cui l’esperienza e la sensibilità del giudice fa la differenza, la risposta può essere variabile: ci sono tribunali in cui è più plausibile rispetto ad altri ottenere la protezione”, spiega l’educatrice Antonella Ugireshebuja.
La richiesta di protezione internazionale per i migranti LGBTQI+
Come si legge sul portale del Ministero dell’Interno, in Italia la protezione internazionaleprevede lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria. La differente tutela attiene ad una serie di parametri oggettivi e soggettivi che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle richieste e ai paesi di provenienza.
In particolare il primo si ottiene quando ci si trova fuori dal paese di origine per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica. Il secondo quando non ci sono i presupposti per ottenerlo, ma comunque esiste un rischio effettivodi subire un danno grave.
«particolare gruppo sociale»: è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perché è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale.
DECRETO LEGISLATIVO 19 novembre 2007, n. 251
Il percorso per ottenere la protezione internazionale proprio perché è legata all’analisi di diversi parametri, però, è tutt’altro che lineare, soprattutto per le persone LGBTQI+.
Ad esempio provenire da un paese che criminalizza l’omosessualità non garantisce la protezione, anche se, come si legge nel report In fuga da omofobia del 2020, in Italia la criminalizzazione in sé è considerata persecutoria. Allo stesso tempo l’assenza di leggi contro l’omofobia non può essere sintomo di un contesto libero.
“In Russia ad esempio c’è una legge contro la propaganda Gay o ancora a Cuba c’è un forte stigma sociale”, sottolinea Alessandro Cataldi, responsabile dello Sportello Legale. E dove non c’è criminalizzazione è ancora più complicato dimostrare le discriminazioni subite.
Non c’è una regola standard. Anche eventuali episodi accaduti in Italia, e non nel paese di origine, possono avere peso: “è accaduto recentemente che un ragazzo è stato aggredito da altri migranti della sua comunità perché passeggiava con un altro uomo, l’intervento della polizia italiana che ha inserito nel verbale l’atto di discriminazione è stato fondamentale per il riconoscimento della protezione internazionale”, racconta Antonella.
Le difficoltà d’accesso alla protezione internazionale per i migranti LGBTQI+
Quello che conta è la storia e l’esperienza di ognuno. Farla emergere, però, non è semplice.
Oltre alla necessità di superare in prima persona lo stigma culturale interiorizzato e le difficoltà legate alle violenze subite, c’è la difficoltà di esprimersi in un contesto di giudizio, “le sale della questura e la presenza delle Commissioni non favoriscono il racconto”, sottolinea Antonella Ugireshebuja. E a questo deve aggiungersi il grande ostacolo della lingua che il sistema supera con la presenza di mediatori e mediatrici e che per le persone migranti della comunità LGBTQI+ è un boomerang: rappresentano la cultura d’origine, origine anche delle violenze, dello sfruttamento, della repressione.
Per queste ragioni non è facile che le esperienze vissute emergano al primo incontro utile per la richiesta di protezione internazionale. Ma l’omissione, espressione della condizione di fragilità, agli occhi della Commissione può rendere tutto meno veritiero.
La coordinatrice della Gay Help Line, Alessandra Rossi, spiega: “nei mesi successivi al primo incontro c’è una preparazione che può portare alla volontà di raccontare, ma spesso può essere valutata come una contraddizione: perché non lo hai detto prima?” Un interrogativo che suona come un’accusa, ma che dovrebbe essere elemento di riflessione e analisi della storia.
Il dialogo tra migrante e Commissione è fatto di ostacoli più che di strumenti di dialogo. E c’è ancora un altro fattore da considerare.
“Bisogna, poi, fare i conti con il fatto che gli avvocati possano sfruttare questa condizione di vulnerabilità per ottenere la protezione internazionale preparando, però, una storia da raccontare che non è quella del diretto interessato o della diretta interessata”, tiene a sottolineare Alessandro Cataldi. Un’esperienza creata su carta e sempre uguale a sé stessa è meno credibile per la Commissione e più esposta a contraddizioni per chi la riporta.
Il riconoscimento dello status di protezione passa proprio dall’analisi di quei parametri oggettivi e soggettivi che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle richieste e ai paesi di provenienza che il Ministero dell’Interno cita per spiegare come funziona l’iter di accesso.
Ma per emergere nella sua complessità ogni storia di discriminazione avrebbe bisogno di racconto e di ascolto, di tempi e di strumenti adeguati su cui c’è ancora molto lavoro da fare.
Rosy D’Elia
(22 giugno 2022)